martedì 18 novembre 2008

OBAMA E LA VITTORIA DELL’IDEALISMO



Nuovo post sull'argomento principale di queste settimane: Barack Obama. Dopo aver sentito un'opinione di destra sentiamo un'altra campana, quella opposta. Tocca a Marco Piccoli illustrare la sua opinione sulle prove che dovrà affrontare il presidente degli Stati Uniti in pectore



“Se ancora c'è qualcuno che dubita che l'America non sia un luogo nel quale nulla è impossibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è tuttora vivo in questa nostra epoca, che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava.”

(Barack Obama, presidente designato degli Stati Uniti, discorso di celebrazione della vittoria elettorale)

Esordisce così, Barack Obama, nel suo primo discorso da leader degli USA.

Parole in grado di acuire la fermezza delle posizioni, delle formae mentis più diverse.

Da una parte, delineando forse un po’ sommariamente in due grandi categorie l’approccio di un individuo o di un elettore ad una netta soluzione di continuità, lo schietto pragmatismo del “Meno parole, più fatti.”

E dall’altra lo slancio di ciò che viene grossolanamente definito “idealismo”. Forse questa bipartizione è anche utile come vademecum nel discernere sul peso che una frase come quella del nostro premier sull’ “abbronzatura” di Obama (no comment..) può avere o meno.

Il secondo ordine di idee (in cui si riconosce chi scrive) parte dalla considerazione di quei dati, ritenuti per alcuni solo suggestivi orpelli, e non connotati fondanti la forza o la debolezza di una leadership (tra cui la razza di appartenenza), come diretti contenuti, elementi viventi di tangibile importanza.

Su questo è interessante notare il plauso mondiale che la vittoria di Obama ha riscosso.

Difficile, se non impossibile, individuare un ristretto spettro di concause di questo plebiscito. Tra di esse altrettanto difficile non inserire i disastrosi otto anni dell’amministrazione Bush, scanditi da un unilateralismo ad oltranza non solo in politica estera (si pensi al Protocollo di Kyoto) e da una discutibilissima politica finanziaria, a detta di molti analisti causa diretta della crisi in corso.

Tale plauso ha sicuramente una forte componente mediatica: un presidente nero, giovane, laureato ad Harvard porta con sé una carica di novità anche solamente apparente che non può non colpire.

Ma si comprende la ragione di un tale successo esaminando complessivamente la vicenda delle elezioni appena tenutesi, e del confronto sul piano dei contenuti tra i due candidati, che all’indomani delle votazioni hanno dato una lezione di stile e di cavalleria alle democrazie di tutto il mondo (in primis alla nostra).

Colpisce in particolar modo scoprire che nei primi mesi della 110° legislatura, i senatori Obama e McCain hanno presentato congiuntamente una proposta di legge sul contenimento del Global Warming, un disegno che avrebbe impegnato gli USA a ridurre di 2/3 le emissioni serra entro il 2050. Colpisce tanto più se si riconosce la questione ambientale come uno dei temi in cui Democratici e Repubblicani presentano la più netta differenza di vedute. Forse alla luce di questo dato l’eccezionale affluenza appare meglio spiegata come un naturale rigurgito di insoddisfazione per il presidente uscente che non come sintomo di entusiasmo per la candidatura del neoeletto e conseguente richiamo alle armi dello schieramento a lui avverso.

Torniamo alla nostra bipartizione: quanto una figura come quella di Obama può assurgere a quel ruolo che il mondo invoca? In altre parole: un presidente afroamericano è, di per sé stesso, una conquista ed una prova di maturità per l’occidente?

Personalmente ritengo di si, per due ragioni:

- La figura di Obama non si discosta da un modello “manageriale” di reperimento e gestione del consenso: la sua è stata la campagna elettorale più costosa mai sostenuta; addirittura sul suo sito troverete tutto il suo catalogo di merchandising. Il che può voler dire che l’elettorato statunitense non rinnega i metodi politici tradizionalmente propri ma confida in una loro mera reinterpretazione. La componente misteriosa che divide “idealisti” e non, è in grado di richiamare gli elettori: ricchezza, questa, indiscutibile per ogni democrazia

- La società americana, e di conseguenza la politica di essa, è molto legata ai valori dell’integrità e della morale (si pensi alla pena di morte, considerata una vera e propria retribuzione morale nei confronti dell’individuo). La scelta elettorale, più che in altre esperienze moderne, si giustifica in un’ottica spesso slegata dal complesso di decisioni ed ispirata da un determinato modus di porsi e di intendere la funzione pubblica. Di conseguenza una candidatura innovativa e prorompente (e vincente) è sintomo di un ampliamento di vedute, di un rinnovamento culturale alla base, più progressista e pluralista.

In conclusione, la presidenza di Barack Obama, al di là delle prospettive (di ogni genere: dall’economia e alla sicurezza internazionale al clima) che può offrire, rappresenta una svolta, una rinfrescante frattura con il passato. Le parole di solennità a cui è uso, il superamento della mentalità del sacrificio dell’opportunità dei mezzi per il fine, l’accettazione di un ideale politico ed umano più alto: tutto questo oggi trova residenza a Washington. E, a differenza di prima, nessuno potrà definire “utopico” tale disegno: Obama sembra avere tutte le risorse per dare filo da torcere anche ai più scettici.

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